Per il secondo anno consecutivo Manuela Caracciolo, giornalista della rivista Astigiani, è stata selezionata come autrice per l’edizione 2016 del Concorso Lingua Madre per il Premio Speciale Giuria Popolare. Il racconto “Africa e nuvole”, ispirato dal complesso e quanto mai attuale fenomeno dell’immigrazione clandestina verso il nostro Paese, sarà pubblicato, insieme agli altri selezionati, nel volume “Lingua Madre Duemilasedici – Racconti di donne straniere in Italia” (Edizioni Seb27).
La scrittrice astigiana era già stata tra le vincitrici dell’edizione 2015 di Lingua Madre e il suo racconto “Tamara tanta paura” è stato inserito nell’antologia ufficiale presentata lo scorso novembre al Circolo dei Lettori di Torino.
Africa e nuvole
Un unico palo solitario svettava contro il cielo alto, slabbrato di nuvole lunghe. Come un punto esclamativo divideva a metà la vampa di quel giorno afoso.
Maheba guardava oltre quella linea scura del mare, oltre la rete che divideva l’asfalto dal verde del campo.
Dietro quella linea la sua terra trasudava urla di donne come lei, e le pareva appena di sentirle, insieme ai lamenti dei palmizi flagellati dai macete, insieme al fumo tossico dei bengala e le capanne arrostite e quell’odore tostato di carne.
Ora se ne stata lì, gli occhi stanchi, a guardare il suo continente steso da oltre la barricata, al sicuro, con il nulla che si era portato via nella fuga.
E il pensiero correva a sua sorella Anaya, quella sposa bambina vestita con anelli dorati e tessuti tinti a mano da lei e sua madre per consacrare la giovinezza a Farouk, uomo con vent’anni più vecchio di lei.
Anaya era bella ed era rimasta là, nascosta in chissà quale antro con altri bambini della tribù, spaventata e con quegli occhi immensi che forse scrutavano ora lo stesso cielo spianato oltre la pianura.
L’ unione con Farouk avrebbe dovuto significare la salvezza per loro.
E lei ci aveva creduto, che sarebbero riuscite insieme a imbarcare tutta la famiglia pagando quel caronte italiano e ad attraversare il mediterraneo scuro. E toccata terra ci sarebbe stata una casa, nuova, diversa, pronunciata in un’altra lingua, ma sempre “Casa”.
Qualcosa però era andato storto, forse la confusione, il terrore. L’avevano persa, tra i contadini che scappavano, tra le altre donne che coprivano i bambini per difenderli.
E Maheba si era ritrovata sola tra altri disperati in quel porto, oltre una speranza aveva sollevato gli ormeggi di quel viaggio atroce, durato in eterno, una corsa contro i limiti di sopportazione fisica e mentale .
Era sbarcata sotto una nuova bandiera con un altro colore della pelle, con un nome difficile da pronunciare, con una parola senza significato, l’identità lasciata tra le onde.
Per Anaya avrebbe ripercorso quel mare, lo sapeva. Avrebbero condiviso il caldo, la sete e il mal di mare per approdare in terra promessa, lei sposa colorata ad un anonimo viso tra la folla. Ma sarebbero state insieme, sorelle di una stessa tribù, l’ultimo scampolo della dinastia dilaniata dagli stermini.
E forse avrebbe varcato insieme la soglia di quello sgangherato campo profughi…
Il dolore condiviso con la sua gente univa i due continenti. Forse avrebbe potuto cominciare a sopravvivere in quel luogo così rumoroso e affollato, forse c’era per lei la possibilità di costruire un nuovo giorno. Forse qualcuno le avrebbe teso la mano e letto la nostalgia del suo sguardo.
In quel momento però, nulla sembrava mutare sotto il suo sguardo, impossibile dimenticare il trauma del distacco, l’incubo del viaggio.
Maheba fissò nuovamente quel palo , simbolo di quella staticità impotente che lo cuoceva nel sole spietato e uno straccio di nuvola si mosse un poco, a portagli un alito di spezie d’oltremare , sussurrando il nome di Anaya.
Catturò quel vento caldo appena accennato nei polmoni, dove lo fece scendere in fondo allo stomaco e lì lo mantenne. Pensò che alla fine sarebbe stato meglio rimanere ancora un po’ lì, come quel sospiro bloccato a metà, continuando a guardare quell’orizzonte immobile e quel cielo alto.